Vercingetorige
la Nemesi di Cesare

Boudicca è quasi certamente il capo celtico di sesso femminile più conosciuto, mentre per quanto riguarda gli uomini questo titolo è detenuto da un Gallo, il cui nome è noto a chiunque abbia anche solo un'infarinatura di Storia europea: Vercingetorige. Come la sua controparte femminile, egli riuscì nella non facile impresa di unire sotto un unico stendardo un popolo che, nonostante i legami di sangue e cultura, era restio ad obbedire agli ordini di un capo supremo.
Come abbiamo detto nello scorso articolo parlando di Boudicca, è bene premettere che le fonti scritte sono quelle tramandateci dagli storici romani, tra cui Cassio Dione, già citato in quanto nelle sue opere descrisse anche la vicenda della regina britannica. A differenza delle informazioni su di lei, però, in questo caso abbiamo anche un testimone d'eccezione, che non solo fu contemporaneo di Vercingetorige ma ebbe modo di conoscerlo di persona, ovvero Gaio Giulio Cesare. La figura del condottiero celtico ha infatti ampio spazio nel libro settimo del De Bello Gallico, l'opera scritta da Cesare per descrivere la sua campagna militare in Gallia, in quanto fu proprio il più celebre dei romani ad affrontarlo in battaglia. Si tenga sempre presente che, purtroppo, la vicinanza della fonte al personaggio storico non è garanzia di imparzialità e correttezza delle informazioni: se per le altre fonti storiche si può avere il sospetto che fossero inquinate dalla propaganda, nel caso del De Bello Gallico se ne ha la certezza, dato che l'opera aveva come scopo principale quello di aumentare il consenso del Senato romano verso lo stesso Cesare. Se ne trova evidente traccia nelle descrizioni di popoli quali Galli e Germani, ricche di termini ben poco lusinghieri, e nei riguardi dello stesso Vercingetorige: sebbene la cronaca delle vicende che li ha visti protagonisti sia da ritenersi piuttosto veritiera, il celta in sé viene dipinto come un personaggio tirannico, un nemico con rivendicazioni del tutto illegittime da abbattere senza pietà, paragonato spesso a personaggi romani considerati negativi come Catilina, in modo da far risultare Cesare come un salvatore che sconfigge un malvagio. Detto questo, gli archeologi sono riusciti a fornire abbastanza informazioni sul contesto in cui il celta ha vissuto, ed anche qualcosa sulla sua figura, in modo da permettere di stilare un racconto meno inquinato da elementi non compatibili con una narrazione neutrale.
Per quanto riguarda le origini di Vercingetorige, sappiamo che nacque in una regione della Francia centro-meridionale allora chiamata Alvernia, la quale prendeva il nome proprio dalla influente tribù celtica che la abitava, cioè gli Arverni. Curiosamente, è molto probabile nonché comunemente accettato dagli storici odierni che “Vercingetorige” non fosse il suo nome proprio, bensì il titolo onorifico con il quale era conosciuto. Il significato di questo appellativo si ritroverebbe nell'unione dei termini gallici che lo compongono, ovvero “Ver”, un superlativo, “cingeto”, “guerriero”, e “rix”, “re”, che insieme formano “il grandissimo re guerriero”, denominazione decisamente appropriata per il ruolo che rivestì. Egli era di nobili natali, figlio di Celtillo, che fu eletto capo militare degli Arverni.
Vercingetorige crebbe in una Gallia divisa in due: la parte corrispondente agli odierni nord Italia e Francia meridionale aveva già subìto la conquista romana, mentre il resto era ancora territorio celtico abitato da diverse tribù, che di solito avevano comunque un rapporto più o meno stretto con Roma stessa. Era il caso degli Edui, potente tribù alleata dei romani e confinante con il territorio degli Arverni, che invece si opponevano a Roma e conseguentemente ai loro vicini. Fu proprio questa alleanza a mettere in moto gli eventi che portarono allo scontro. Quando Vercingetorige aveva circa vent'anni di età, gli Edui cominciarono a subire la minaccia di alcune popolazioni germaniche che si stavano spostando dai propri territori, e Cesare, con la scusa di venire in soccorso degli alleati, ne approfittò per cominciare un'invasione vera e propria della Gallia celtica. Il padre di Vercingetorige, Celtillo, cercò di imporsi come capo della fazione anti-romana delle tribù, ma venne condannato a morte dagli stessi Arverni poiché accusato di cercare di trasformare la sua carica di capo guerriero, elettiva, in una monarchia vera e propria. Tra i fautori di questa condanna pare ci fosse Gobannitio, fratello di Celtillo e quindi zio di Vercingetorige, che ritroveremo più avanti.
In questo periodo il giovane Gallo entrò a far parte dell'esercito romano come ausiliario, pratica abbastanza comune per i giovani nobili dell'epoca, che da una parte venivano per quanto possibile indottrinati e fatti entrare nella sfera d'influenza romana, dall'altra avevano modo di studiare metodi e tattiche di combattimento della più grande potenza del mondo conosciuto. In particolare, venne impiegato come fonte di informazioni sulle tribù galliche e sul territorio in generale, divenendo più un agente di intelligence che un normale soldato. Questa sua posizione gli avrebbe garantito un legame con Cesare, dato che i suoi rapporti venivano trasmessi e a volte discussi direttamente col comandante romano, e potrebbe in parte spiegare come mai venne definito “ingannatore” nel De Bello Gallico, dando un risvolto personale al tradimento. Cassio Dione arriva ad asserire che Cesare e Vercingetorige fossero addirittura stati amici, prima della ribellione di quest'ultimo.
La campagna militare di Cesare fu un successo: sconfitti i Germani che premevano al confine, rivolse le su truppe contro le tribù galliche del nord e dell'ovest della Francia, sottomettendole nel giro di due anni. La Gallia fu conquistata, ma non pacificata, dato che nei quattro anni successivi Cesare dovette affrontare molte ribellioni grandi e piccole, nei casi più gravi risolte con metodi brutali come il massacro dei nobili e la riduzione in schiavitù del resto della popolazione o direttamente lo sterminio dell'intera tribù. L'oppressione romana, soprattutto attraverso gravose imposizioni fiscali, non accennava a diminuire nonostante le numerose rivolte, e quando Cesare si allontanò dalla Gallia per la prima volta dall'inizio dell'invasione, sei anni prima, Vercingetorige ne approfittò per mettere in atto le sue reali intenzioni.
Il Gallo, infatti, nonostante il suo servizio militare non era mai stato veramente fedele a Roma, ed anzi il desiderio di liberarsi dal giogo romano per ritrovare la propria indipendenza era progressivamente cresciuto in lui tanto quanto era cresciuto nelle tribù sottomesse. In effetti non fu lui la “scintilla” della ribellione, bensì un massacro di cittadini e funzionari romani perpetrato dalla tribù dei Carnuti a Cenabum, l'odierna Orléans. La voce di questo avvenimento viaggiò rapidamente in lungo e in largo suscitando forti reazioni in tutta la Gallia, e quanto arrivò alle orecchie di Vercingetorige lui fu pronto a cogliere l'opportunità. Soffiando sul fuoco della rivolta, tentò di fare la stessa cosa che provò a realizzare suo padre, ovvero quella di imporsi come capo della rivolta, e quindi dei Galli, contro gli invasori romani. Si tenga presente che gli Arverni erano una delle tribù più influenti della Gallia, e la voce di un membro di una delle loro famiglie più illustri aveva peso in tutta la regione. Come successe a suo padre, incontrò il diniego degli altri nobili del suo popolo, tra cui lo zio Gobannitio, che però questa volta si limitarono a cacciarlo da Gergovia, la loro capitale. Vercingetorige non si perse d'animo, e nel giro di qualche giorno arruolò un considerevole numero di uomini nelle campagne, abbandonati a loro stessi e vessati dalle tasse romane, ritornando in città alla loro testa e proclamandosi il vero comandante degli Arverni. Venne in breve tempo acclamato Re dal popolo, e cominciò immediatamente ad inviare messaggeri alle altre tribù.
Fin da subito Vercingetorige fece mostra di ottime capacità oratorie, infatti lo stesso Cesare scrisse che, rivolgendosi ai suoi, “senza fatica li infiamma”. Non solo, seppe anche muoversi molto bene nel campo diplomatico, riuscendo a radunare un grande consenso che si tradusse ben presto in un vasto esercito. Cercò anche di ottenere l'aiuto o quantomeno la neutralità dei più forti alleati di Roma, gli Edui e le altre tribù a loro confederate, ma senza successo, almeno inizialmente. Infine, dimostrò anche un grande acume militare: avendo compreso, grazie alla sua esperienza di ausiliario, che l'esercito romano doveva la sua efficienza e la sua mobilità in gran parte agli approvvigionamenti, adottò ciò che oggi chiamiamo la tattica della terra bruciata, eliminando le risorse del territorio per logorare le legioni ed evitando lo scontro diretto in modo da indebolirle prima di assestare il colpo finale.
Questa strategia ottenne il beneplacito di tutte le tribù, disposte a bruciare tutti i propri villaggi e città pur di avere una possibilità di vittoria, tranne una. La capitale dei Biturgi, Avaricum, venne risparmiata dalle fiamme, poiché ben fortificata e circondata da un terreno paludoso che permetteva l'accesso solo da uno stretto passaggio, rendendo difficile attaccarla. Cesare sostiene che Vercingetorige si lasciò impietosire dalla richiesta dei nobili della città di non darla alle fiamme, ma in realtà, dato anche come si svolse il suo assedio, quasi certamente fu lasciata intatta di proposito per far sì che i romani cercassero di conquistarla e rimanessero impantanati in una guerra di logoramento. Vercingetorige, infatti, oltre ad inviare un gran numero di uomini ad Avaricum per la battaglia prima dell'arrivo di Cesare, pose il suo accampamento poco distante non appena i romani iniziarono l'assedio della città, assalendo chiunque uscisse dal loro campo per cercare cibo e altre risorse. La strategia sembrò funzionare, ma i romani riuscirono in poco meno di un mese, nonstante la scarsità di cibo e agli attacchi dalla città, a costruire un terrapieno che permise loro infine di superare le mura e conquistarla, potendo così rifornirsi e fare bottino. I romani sfogarono tutta la loro frustrazione accumulata nel mese precedente di fatica e privazioni sulla popolazione: dei quarantamila assediati, di cui solo diecimila guerrieri in armi, si salvarono ottocento persone, riuscite a fuggire prima del massacro, e la città venne rasa al suolo.
La vittoria diede un po' di tregua alle legioni, ma durò ben poco, dato che col passare del tempo sempre più tribù abbandonarono l'alleanza con Roma per passare dalla parte degli insorti. Anche gli stessi Edui, alleati di lungo corso, erano sull'orlo di una guerra civile tra chi sosteneva i romani e chi i propri fratelli, mentre alcune tribù della loro confederazione si unirono alla ribellione in blocco. Cesare, forse reso troppo sicuro di sé a causa della recente vittoria, decise di dividere l'esercito per porre fine in fretta alla rivolta, mandandone una parte sotto il comando di Tito Labieno a pacificare gli Edui e le tribù a loro legate, e dirigendosi con il resto direttamente verso Gergovia per affrontare subito Vercingetorige. Qui l'assedio non andò come previsto, dato che la fretta nell'attaccare ed un momento di indisciplina dei legionari, che non risposero ad un ordine di ritirata e continuarono l'assalto, decretarono la sconfitta di Cesare, che non riuscì ad espugnare la città. Nei giorni successivi schierò l'esercito aspettandosi di essere affrontato dai Galli euforici per la vittoria, ma Vercingetorige evitò ancora una volta lo scontro in campo aperto, perciò i romani si mossero in direzione del territorio degli Edui, ormai in aperta rivolta, per cercare di riportarli dalla propria parte e per riunirsi con l'armata di Tito Labieno, che da sola non sarebbe riuscita nell'impresa.
Questo fu il momento di apice per Vercingetorige: di tutte le tribù galliche sottomesse da Cesare negli anni precedenti solo due rimanevano fedeli a Roma, mentre tutte le altre si erano proclamate unite sotto l'egida del “grandissimo re guerriero”, e l'esercito romano era diviso in due in un territorio quasi del tutto ostile. Cesare, dopo essersi rifugiato presso una delle due tribù ancora a lui fedeli, considerò la ritirata e cominciò a marciare verso la Gallia romana, mentre l'altra parte del suo esercito riuscì a sfuggire agli Edui e ai loro alleati e si mosse per riunirsi con l'armata principale. Vercingetorige, partito all'inseguimento, mandò avanti la sua cavalleria per impedire la fuga dei romani, ma questa venne sconfitta. Accusando il colpo e perdendo un po' della fiducia guadagnata, decise di affrontare i romani al sicuro, dietro le mura della vicina Alesia. Non solo godeva di una buona superiorità numerica (si stima ottantamila Galli contro cinquantamila romani), ma un'altra armata costituita dalle ultime tribù unitesi a lui era in marcia per scacciare definitivamente i romani, perciò sarebbe stato utile guadagnare tempo.
La battaglia di Alesia fu una delle più importanti dell'intera Storia romana, e conseguentemente di quella europea. Come nel caso di Boudicca, un intero popolo si unì e tentò il tutto per tutto per ottenere la propria libertà, ma come nel caso di Boudicca il fervore e la rabbia non bastano se non sono supportati da tecnica e disciplina. In particolare, si può affermare che la battaglia di Alesia fu vinta più dall'ingegneria che dalla forza bruta. Gli eserciti romani, riunitisi e consci della nuova armata in arrivo, costruirono a tempo di record un'opera di assedio impressionante: due linee di fortificazione, una interna lunga quindici chilometri che circondava completamente la città, e una esterna di ventuno per proteggersi dall'assalto gallico imminente. Queste linee comprendevano due terrapieni sormontati da palizzate, uno esterno e uno interno, due fossati lungo i terrapieni, di cui quello interno riempito d'acqua deviando un fiume vicino, buche e trappole al di fuori dei fossati, quasi mille torri di guardia dotate di artiglieria, ventitrè fortini, quattro grandi campi per le legioni e altrettanti per la cavalleria. Tutto questo in tre settimane, e nel caso della linea interna sottoposti a continui attacchi da parte dei Galli.
Alesia divenne una trappola. Senza essere riusciti ad evitare la costruzione della linea interna, senza possibilità alcuna di rifornimenti e con più di ottantamila bocche da sfamare, i Galli assediati fecero uscire i non combattenti dalla città per risparmiare cibo e nella speranza che i romani potessero lasciarli passare. Non fu così, e Cassio Dione racconta che questi sfortunati morirono di fame nella terra di nessuno tra le mura romane e quelle di Alesia. Nel momento della disperazione, giunse l'esercito gallico di rinforzo, dando la forza agli assediati per resistere ancora. I rinforzi tentarono tre grandi assalti, aiutati anche dai difensori di Alesia, che essendo posta su una collina dava la possibilità di vedere oltre le fortificazioni romane e capire dove si concentrassero gli attacchi gallici, in modo da coordinarsi. Nel terzo ed ultimo sembrò che la situazione potesse volgersi a favore dei Galli, ma Cesare riuscì a ribaltare la situazione, posizionando con oculatezza i suoi legionari, respingendo i Galli dell'armata esterna e contrattaccando mettendoli in fuga.
A Vercingetorige non restò che consultarsi con l'assemblea che guidava la coalizione e mettere la sua vita nelle loro mani, disposto sia a sacrificarla sia a consegnarsi come prigioniero. Fu decisa la resa. Plutarco racconta: “Vercingetorige, indossata l'armatura più bella, bardò il cavallo, uscì in sella dalla porta della città di Alesia e, fatto un giro attorno a Cesare seduto, scese da cavallo, si spogliò delle armi che indossava e chinatosi ai piedi di Cesare, se ne stette immobile, fino a quando non fu consegnato alle guardie per essere custodito fino al Trionfo”. La cattura di Vercingetorige pose fine ai sogni di libertà dei Galli: i sopravvissuti di Alesia vennero assegnati come schiavi ai legionari come bottino di guerra, tranne quelli di alcune tribù importanti come gli Edui con cui Roma stava trattando una nuova alleanza, mentre i restanti ribelli vennero rapidamente sconfitti.
Il condottiero venne portato a Roma ed imprigionato fino alla marcia trionfale di Cesare, che avvenne qualche anno dopo, al finire della guerra civile contro Pompeo. In questa guerra, peraltro, perse la vita anche Tito Labieno, fidato luogotenente di Cesare e comandante dell'armata che si ricongiunse a lui ad Alesia, che scelse di schierarsi contro il suo vecchio comandante quando cercò di prendere il potere assoluto. Vercingetorige sfilò nel Trionfo di Cesare, al termine del quale venne messo a morte per strangolamento. Questo contrasta con la fama di uomo clemente di cui godeva Cesare, che infatti ad esempio risparmiò Arsinoe, sorella di Cleopatra e anche lei prigioniera illustre, la quale sfilò nel Trionfo il giorno successivo al Re celtico, e sembrerebbe avallare l'ipotesi di un rapporto di amicizia tradito, per il quale si esigeva vendetta, oppure fu la punizione per l'uomo che rischiò di compromettere la vittoria in Gallia in uno dei momenti più delicati della sua carriera politica.
La Gallia seguì le vicende dell'Impero, romanizzandosi sempre più e dando vita ad un'unione che venne definita come cultura gallo-romana. Ottant'anni dopo la conquista, i nobili Galli vennero accettati nel Senato, sancendo un'integrazione definitiva. La cultura gallo-romana fu assorbita dagli invasori Franchi, che diedero poi vita al Sacro Romano Impero con Carlo Magno.
Ironicamente, lo stesso Cesare che commise il discutibile atto di condannare a morte Vercingetorige fu anche colui che lo consegnò all'immortalità della Storia, legandolo alla propria fama. Fu poi l'imperatore francese Napoleone III, a metà Ottocento, a riportare in auge la sua figura quale padre della Patria e dei popoli gallici che la componevano. La statua di sette metri raffigurante il Re condottiero, eretta nel 1866 sul sito di Alesia, ancora oggi riporta una sua frase, che sebbene sia tramandata dal De Bello Gallico, e quindi dal suo avversario, riassume alla perfezione il messaggio che volle mandare al mondo intero:
“La Gallia unita
A formare una sola nazione
Animata da un unico spirito
Può sfidare l'Universo”