La Guerra e l'Amore
Scaldi e Trovatori

Ci eravamo lasciati nell'articolo precedente parlando degli aedi, i poeti erranti della Grecia classica, rappresentati tradizionalmente come ciechi. La mancanza della vista indicava simbolicamente la capacità di non farsi influenzare dalla realtà materiale e riuscire a sviluppare i sensi sottili, ovvero quelli dell’anima, con cui entrare in contatto con la divinità.
Volendo ricercare altre Tradizioni ove cecità e poesia hanno un legame, spostandoci nel freddo nord dell’Europa troviamo Odino, il Padre di Tutti. Egli è infatti cieco da un occhio e patrono della poesia, e conseguentemente protettore di chi concepiva e declamava componimenti in versi: gli scaldi. Ma chi sono gli scaldi?
Cominciamo dall’etimologia del nome. Il termine scaldo è collegato al termine proto-germanico “skalliz” e all’antico alto tedesco “skal”, che significano “suono, voce”, suggerendo da subito il legame di questa figura con l’utilizzo della parola, naturalmente centrale nell’arte poetica. Proprio come per i bardi, infatti, il loro compito consisteva nel creare, utilizzando la loro altissima erudizione, degli elaborati componimenti in versi, utilizzando l’ampio materiale fornito dalla mitologia. Un buon numero di questi componimenti è giunto fino a noi, e dal loro contenuto si può evincere l’importanza dell’attività degli scaldi quali poeti di corte, dato che molto spesso celebravano le gesta del signore che li ospitava. In epoca vichinga, infatti, gli scaldi erano sì poeti itineranti, ma erano soliti fare sfoggio della loro arte quasi unicamente presso le corti dei sovrani o dei nobili. Successivamente la poesia scaldica si sarebbe evoluta, con gli artisti che inserivano nei loro componimenti molti altri temi, come amore, vendetta, perdita, viaggio, ed anche elementi molto personali, come le loro speranze e i loro sentimenti, fino alla creazione di vere e proprie opere autobiografiche, in cui descrivevano la loro vita.
Abbiamo visto come i bardi chiedessero spesso ospitalità e cibo alle osterie presso cui sostavano, durante le loro peregrinazioni. Esattamente come i bardi, gli scaldi spesso viaggiavano a lungo, venendo accolti come ospiti onorati dai sovrani e dai nobili, ma a differenza dei bardi, che spesso si limitavano a chiedere ospitalità in cambio della loro arte, gli scaldi ricevevano doni preziosi, come anelli o altri gioielli, oppure un pagamento in contanti. La cosa non deve stupire, vista la natura celebrativa di moltissime poesie a cui abbiamo accennato precedentemente. Queste ricompense venivano definite “skaldfé”, ovvero “ricompensa dello scaldo”, oppure “bragarlaun”, che significa “dono per una poesia”.
Un altro punto comune tra scaldi, bardi e aedi era il loro stretto legame con una divinità che aveva tra i suoi domini la poesia. La divinità cui erano legati gli scaldi, come detto all’inizio, era la più importante del loro pantheon: Odino, anche detto il Padre di Tutti, l’Havi, il Dio con un solo occhio che, secondo la tradizione mitologica, parla in versi. La motivazione si trova nell’Havamal, “la canzone dell’Havi”, che significa “l’alto” o “eccelso”, componimento che, oltre a dispensare consigli per una retta conduzione della vita, riporta vari episodi importanti riguardanti l’origine della civiltà. In uno di questi episodi, Odino ruba una bevanda sacra al gigante del ghiaccio Suttungr: si tratta dell’Idromele della Poesia, che permette a chiunque lo beva di diventare sia un poeta sia uno studioso in grado di declamare qualsiasi informazione o rispondere a qualsiasi domanda. Odino, oltre a condividerlo con gli altri Déi, lo elargisce a quegli uomini che sono destinati ad essere poeti.
Va anche detto che, a differenza di bardi ed aedi, spesso gli scaldi non si limitavano ad essere artisti: provenendo da una cultura profondamente legata alla guerra, non di rado andavano in battaglia distinguendosi anche come guerrieri, oltre che come poeti. Inoltre, vivendo alla corte di un sovrano, frequentemente ne diventavano consiglieri, facendo sì che la vita politica non fosse lontana dalla loro arte, ma ne diventasse fonte di ispirazione.
La poesia scaldica, articolata e complessa, era contrapposta a quella più semplice e lineare della poesia eddica, ovvero quella dell’Edda poetica. Se quest’ultima era utilizzata più che altro per raccontare i Miti o le Saghe eroiche (l’Havamal fa infatti parte di questa corrente), la poesia scaldica aveva le stesse necessità che si riscontrano in quella praticata dai bardi gallesi e irlandesi: oltre a raccontare fatti reali, così da tessere le lodi del sovrano o del nobile che in quel momento fungeva da mecenate dello scaldo, aveva anche il compito di trasmettere le conoscenze nascoste contenute nei Miti, e non solo il loro svolgimento. La poesia scaldica faceva ampio uso della Kenning, una sorta di metafora che sostituiva una parola con due o più termini per trasmettere il medesimo concetto, che contenevano riferimenti al mondo mitologico-culturale norreno: ad esempio, la stessa arte scaldica veniva denominata “Idromele di Suttungr”, citando la leggenda della sua creazione, la morte era “la mela di Hel”, dea degli inferi, la nave il “cavallo di Haki”, grande pirata e condottiero vichingo, la spada “il fuoco della Valchiria”; esistevano centinaia di Kenningar per sostituire singole parole di grande importanza nel mondo nordico come appunto “spada”, “nave”, ma anche “mare”, “oro” e “battaglia”. Era quindi una poesia elitaria ed estremamente colta, risultando di fatto quasi incomprensibile per chi non conoscesse a menadito saghe e leggende o comunque mancasse dei necessari riferimenti culturali, che permise agli scaldi di conservare e tramandare la Tradizione norrena anche dopo l'arrivo del cristianesimo e la demonizzazione degli antichi Déi.
La particolare complessità della poesia scaldica è sicuramente paragonabile a quella dell'arte poetica sviluppatasi nella regione della Linguadoca, nei secoli centrali del medioevo. Arte propria di un'altra figura europea, con molti tratti comuni a quelle che abbiamo visto fin qui: i trovatori.
È estremamente difficile tratteggiare queste figure misteriose che hanno caratterizzato uno dei momenti più alti di tutto il medioevo dal punto di vista letterario, a partire dall’etimologia del nome che, a differenza di quella degli scaldi, è a tutt'oggi incerta. Del termine occitano originale trobador, si trovano oggi corrispondenze in italiano, ovvero “trovatore”, nel portoghese e nello spagnolo, con la parola“trovador”, e nel catalano e galiziano come “trobador”. Oggi è comunemente accettata la teoria che il nome derivi dall’uso occitano, ovvero della Linguadoca, del termine “trobar”, inteso come poetare. Se ne fa menzione per la prima volta in un testo del XII secolo, a firma di Peire d'Alvernhe, trovatore francese dallo stile complesso e a tratti esoterico, nominato anche nella Divina Commedia dantesca.
Anche l’origine di queste figure è estremamente dibattuta.
Ezra Pound sostiene che l'arte trobadorica sia derivazione dell’arte poetica araba, che all’epoca era diffusa nella gran parte della Spagna ancora dominata dal califfato di Al-Andalus, dato che tra le due si individuano molte similitudini formali e tematiche. D’altro canto, c’è chi invece fa risalire la nascita della poesia dei trovatori alla sopravvivenza, nel sud della Francia, di uno strato di tradizioni e cultura celtiche, che avrebbe inciso profondamente sull’elaborazione del principio dell’amor cortese, centrale nell'opera dei trovatori. Estremamente affascinante è anche l’ipotesi che vede la nascita dei trovatori legata allo sviluppo del catarismo, dottrina definita eretica dalla chiesa di Roma e oggetto di aspre persecuzioni. Secondo questa teoria nei componimenti si troverebbero, nascosti da un linguaggio articolato e ricco di figure retoriche, i precetti della dottrina catara.
Le ipotesi di origine celtica e catara verrebbero suffragate da una sovrapponibilità geografica dei tre fenomeni: infatti il catarismo e i trovatori sono movimenti che coinvolgono aree di antica tradizione celtica, come il sud della Francia e l’Italia del nord. Come spesso abbiamo visto nei precedenti articoli, nonostante l'avvicendarsi di culture e dominazioni, in particolare la conquista romana e l'avvento del cristianesimo, in queste zone il substrato culturale celtico è sopravvissuto. Inoltre, è un dato di fatto che la poesia trobadorica e il catarismo trassero beneficio l'una dall’altro. Infatti molti trovatori si convertirono al catarismo, traendo così fonte di ispirazione dalla loro nuova fede e sfruttando la loro arte per diffondere il suo messaggio, ancorché nascosto con espedienti retorici nei loro componimenti. Il movimento cataro, dal canto suo, ebbe una maggiore diffusione grazie all’opera di questi poeti erranti.
I trovatori provenivano da diverse classi sociali, anche se inizialmente erano solo nobili, come uno dei duchi di Aquitania, probabilmente il più antico dei trovatori. Non tutti avevano un lignaggio così illustre, anzi, molti erano cavalieri di basso rango. Successivamente si ha notizia di trovatori provenienti dalla classe mercantile o artigiana, e vi era anche chi aveva ricevuto un'educazione clericale. Inoltre, anche le donne intraprendevano la vita del trovatore. Esse venivano chiamate “trobadoriz”: esattamente come nell’antica Europa celtica, l’arte poetica non era affatto esclusiva maschile.
Al centro della poesia dei trovatori, come già accennato, vi è l’amor cortese, principio che ruota attorno alla figura della donna amata dal poeta (o l'uomo, nel caso delle trobadoriz), vista come essere sublime e irraggiungibile, divinizzata. Esso verrà incorporato nel codice cavalleresco, divenendo a suo modo un ideale guerriero, dato che è stato inizialmente elaborato da cavalieri, e quindi guerrieri, che come alcuni scaldi conoscevano la battaglia e il mestiere delle armi.
Esistono due principali interpretazioni di questo ideale, in quanto alcuni studiosi abbracciano l'idea che questi componimenti veicolino la dottrina catara, mentre altri la negano totalmente. Questo dipende dal fatto che alcuni componimenti sfiorano il platonico, mentre altri sono erotici al limite dell'osceno; è in realtà sensato pensare che, dato che non tutti i trovatori avevano abbracciato il catarismo, semplicemente alcuni di quelli che non l'avevano fatto si dilettassero nel componimento di opere erotiche, ma si sa che agli studiosi piace discutere.
Vediamo ora le caratteristiche salienti dell'amor cortese, cercando di illustrare entrambe queste interpretazioni.
Innanzitutto la donna amata è irraggiungibile in quanto sposata, solitamente a qualcuno di rango superiore, e perciò l'amore non può essere ricambiato, soprattutto per quanto riguarda la dimensione fisica. Questa impossibilità del congiungimento carnale può essere segno della metafora spirituale catara che vede la donna come la rappresentazione dell'anima dell'individuo, il cui desiderio ed obiettivo è divenire un tutt'uno con essa, raggiungendola unicamente con il proprio sentimento puro ed abbandonando di conseguenza tutto ciò che è materiale. Si ritrova un concetto molto simile nella figura della donna angelicata dei fedeli d’amore e del dolce stil novo. D'altra parte, può anche essere una visione figlia di una concezione negativa del matrimonio, visto dai trovatori come mero accordo politico-economico tra famiglie, condizione comune nelle classi nobiliari e borghesi da cui proveniva la maggior parte di loro, che per sua natura non ha amore al suo interno e impedisce il compimento finale dello stato di amor cortese, il “fin’ amors” in occitano.
Questa irraggiungibilità mette il poeta in una posizione di inferiorità rispetto alla donna amata, con la quale instaura perciò un rapporto di vassallaggio, chiamato servizio d’amore, imitando il vincolo che intercorre tra un cavaliere e il suo signore a cui giura fedeltà. Da un punto di vista spirituale, questo giuramento di fedeltà alla propria anima simboleggia il proposito non cedere alle tentazioni carnali e percorrere saldi la difficile strada che porta alla beatitudine, mentre da quello materiale simboleggia la facoltà della donna di concedere il proprio cuore all'amato, ove per vincolo matrimoniale non può concedere il proprio corpo, riportando di nuovo la condizione di mancanza di amore del matrimonio combinato, di prassi all'epoca.
L'ultima, fondamentale caratteristica distintiva di questo amore impossibile è il contrasto che esso genera: l’ebrezza tipica dell’amore, accompagnata dall'esaltazione per questo sentimento segreto e proibito, vengono compensate dalla sofferenza e dal tormento generati dall’impossibilità di vederlo completamente ricambiato. Se da un punto di vista profano il concetto non ha bisogno di ulteriori chiarimenti, si potrebbe dire che esso funge da ottima descrizione delle difficoltà incontrate da chi è sul percorso dell'illuminazione spirituale, in quanto è l'amore stesso a dare la spinta propulsiva fondamentale per giungere al suo coronamento, nonostante la strada sia molto ardua.
Ovviamente la chiesa romana non vedeva di buon occhio queste forme di poesia: è abbastanza scontato, visto che da un lato arrivavano a sostituire il Dio cristiano con la donna amata, e dall'altro criticavano anche uno dei sacramenti, il matrimonio.
Esattamente come nell’antichità, le forme dei componimenti di questi poeti erranti erano le più disparate: si andava dai sonetti di varia lunghezza per arrivare fino a veri e propri poemi. Uno di questi, il Parzival o Parsifal, a firma di un “Minnesänger”, un “cantore d’amore” equivalente tedesco dei trovatori, va a riprendere ed ampliare i temi di uno dei poemi incompiuti di Chrétien de Troyes, il Roman de Perceval, divenendo una delle opere più famose dell'epoca ed andando ad aprire definitivamente uno dei filoni letterari più fiorenti dell’Europa medioevale, quello dei poemi e romanzi sul Santo Graal, che si unirà alle leggende di Re Artù e del ciclo bretone. Lo stesso Chrétien de Troyes ha attinto molto dalla letteratura occitana, e quindi dai trovatori, per le sue famosissime opere che hanno permesso al Mito di Artù di giungere fino a noi.
In queste opere si trovano forti tracce di mitologia celtica, chiudendo così un ideale cerchio iniziato con i bardi che tocca alcune delle più alte vette della cultura europea, in un viaggio di circa duemila anni che mostra il profondo legame delle popolazioni europee con il Mito e con il loro retaggio guerriero. Legame che costituisce la più forte radice, da tenere assolutamente viva, da cui l’Europa può e deve ricominciare.