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Eudaimonia

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Strettamente collegato con l’Hegemonikon troviamo un concetto molto in voga oggi nell’era della Virtualità: la felicità.

Come precedentemente detto, oggi l’essere felici passa dall’essere un legittimo e auspicabile desiderio ad un imprescindibile diritto da rivendicare, ottenere e tutelare. E ciò è ben lontano dal significato originale e dalle implicazioni che questo significato porta con sé in termini di possibilità e di Forza, quindi di Potere.

Essere felici, etimologicamente, significa essere abbondanti, fertili, ricchi, per poter soddisfare i propri bisogni e i propri desideri. Richiama un’operosità attiva, vissuta e concreta, un’espressione - diremmo noi - della Volontà di Potenza. Per gli antichi, essere felici non era una dimensione effimera verso la quale tendere continuamente, ma il frutto di una condotta stabile della propria esistenza.

Per i Greci tutto questo aveva un nome: Eudaimonia, ossia il bene per il proprio Dàimon, il proprio spirito. Al di là delle speculazioni storico filosofiche sul Dàimon, secondo la concezione greca la felicità coinciderebbe con il vivere il bene del proprio animo. Questo sia da un punto di vista materiale che interiore, spirituale.

Secondo le scuole filosofiche antiche, l’eudaimonia corrisponde a quel concetto - oggettivamente poco chiaro e un po’ superficiale - che oggi viene spiegato come “la migliore versione di sé stessi”: essere autorealizzati in ogni aspetto della vita, e quindi appagati dalla vita stessa. La grande differenza è che questa realizzazione parte da sé stessi e non dai bisogni, dalle richieste e dalle ambizioni della società, del sistema, o di qualsiasi altra istituzione esterna, la quale, per quanto fondamentale nell’organizzazione della vita sociale, non può aver accesso a quella dimensione intima e personale che esige l’Eudaimonia.

Per questo, al fine di realizzare il bene del proprio animo,  bisogna prima di tutto “Gnōthi Sautón”, conoscere se stessi, per poter aver accesso al proprio Dàimon, e poter perseguire il “volere del proprio Principio Egemone”. Questo percorso, oltre a garantire una sempre maggiore conoscenza di sé stessi, va a determinare un’altra delle caratteristiche importanti per l’eudaimonia: la misura.

Per gli antichi infatti la felicità non era materia da confondersi con l’euforia senza regole di cui oggi troppo spesso vediamo testimonianza, come non potevano contemplare una dissennata messa in mostra degli stereotipi del benessere di cui una persona dispone: Katà Mètron, la “giusta misura”, era la caratteristica chiave di chi sa prendersi cura di sé, e valorizzarsi secondo il proprio principio Egemone, quindi in armonia con il proprio Dàimon.

Grazie al senso della misura, si sarebbe evitata la Hybris e la conseguente Nemesis, di cui abbiamo già parlato.

L’Eudaimonia si evince quale estrema sintesi del rispetto della Natura, del Kosmos, compresa l’accettazione della morte: Kàta Mètron ci riporta al Limite, quale àncora di realtà e del ciclo della vita. Infatti il limite ultimo, rappresentato dalla morte, deve essere considerato, visto e accettato per poter vivere appieno dell’esistenza stessa.

E la sofferenza? Di per sé antitesi stessa della felicità, anche la sofferenza esiste e viene contemplata dal pensiero antico, nonché testimoniata dai grandi uomini di Potere. Proprio uno questi ci dà la misura della relazione tra vitalità felice e dolore: Epitteto, il grande filosofo, nato schiavo e poi liberato, ci spiega con il suo motto “àbstine, sùbstine” - ossia astieniti e sopporta - di astenersi da tutto ciò che non è in proprio potere e sopportare quel che capita. Compreso il dolore.

In quest’ottica il dominio si sé diventa la chiave per ogni uomo di Potere e, in quanto tale, un uomo realizzato e felice. La felicità così intesa diventa un fine, uno scopo elevato verso cui tendere e orientarsi nella pienezza di una visione ampia e concreta dell’esistenza e della propria Volontà di Potenza.

Di diverso avviso invece è la felicità intesa dalla Virtualità.

L’effimero inseguire di stati estatici o euforici che viene proposto è molto più simile all’edonismo: un inseguimento del piacere istantaneo che come spesso si manifesta, svanisce insieme alla sensazione di appagamento provata.

In questo il Potere si configura quale controllore e gestore del Desiderio.

Senza entrare nel vivo dell’argomento, che merita un approfondimento ad hoc, possiamo dire che nella società del Virtuale la felicità si riassume da un lato nell’evitare con forza la sofferenza che, a differenza di quanto spiegato dagli antichi come Epitteto, viene messa in mostra e usata come leva verso la società stessa che deve provvedere alla sua soluzione, e dall’altro nel possesso di oggetti o nell’assunzione di ruoli che vengono riconosciuti dalla società stessa quali elementi prestigio.

Lo sguardo dell’altro va a dichiarare con forza lo stato o meno di benessere che il soggetto prova, magari in totale distonia rispetto al “Dàimon” e all’Hegemonikon del soggetto.

La società dei consumi si basa su questo: la novità -  che per definizione ha il grande pregio di non invecchiare mai, ma di morire appena ne viene fatta emergere un’altra – viene resa desiderabile, e la sua mancanza diviene fonte di perenne sofferenza. In questo, oltre al consumo compulsivo e alla produzione fuori dalla logica dei bisogni, ci insegna un criterio molto importante per comprendere come si muovono le strade del Potere di oggi: se controlli il Desiderio, determinando tu stesso ciò che è desiderabile o meno, controlli la felicità e la sofferenza delle persone.

L’incapacità di gestire sé stessi, in termini di Dominio di sé, apre la porta al Dominio sull’esterno quale logica dominante del Potere, che, in perfetta coerenza con il nostro percorso, si esprime secondo innumerevoli Possibilità: la mercificazione della felicità, in termini di oggetti, beni e servizi atti al soddisfacimento immediato delle proprie pulsioni e dei propri desideri indotti, diventano i fili sottili del controllo a cui le masse si legano ben volentieri, pur di evitarsi anche solo l’eventualità prospettata da Epitteto, e cercare di spostare sempre un secondo più in là la sofferenza, il dolore e la morte.

Il Limite viene visto come un ostacolo innaturale al perenne godimento, mentre la conoscenza di sé come un annoiato e autoreferenziale passatempo, quando non viene semplicemente disincentivata in quanto perdita di tempo.

In questa differenza tra le due diverse idee di felicità si manifesta lo scontro in atto tra il nuovo Titanismo imperante e il sorgere di una nuova umanità.

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